Le rivoluzioni colorate in Eurasia (I)

La situazione del mondo arabo scossa dalle rivolte popolari rischia di culminare nella disintegrazione di taluni Stati e nel loro frazionamento in minuscole realtà. Uno scenario simile è stato previsto allo stesso modo per la Russia, ma tale scenario non ha alcuna possibilità di diventare reale[1].
Dimitri Medvedev, Vladikavkaz, Ossezia del Nord, 22 febbraio 2011.

Durante lo scorso decennio, una parte dei paesi dell’ex mondo sovietico, (Europa centrale e Asia centrale) è stato disintegrato da un’ondata di rivoluzioni. Queste rivoluzioni, o almeno quelle il cui corso è già concluso, hanno introdotto dei cambiamenti di potere e quindi d’orientamento politico in seno agli stati in questione. Tali cambiamenti di regime si sono tutti svolti secondo identici scenari, non violenti, e presentati dal main-stream mediatico come rivoluzioni democratiche, provocate da una gioventù avida di libertà e che intende far vacillare regimi politici cripto-sovietici, debolmente democratici e corrotti. Queste “rivoluzioni colorate[2]” o “rivoluzioni arancioni” (dal nome della rivoluzione in Ucraina), ci sono state presentate in un certo senso come complementari e conseguenti alle “rivoluzioni di velluto[3]” che hanno segnato l’inizio dell’emancipazione delle nazioni dell’Europa dell’Est dal giogo sovietico. Pertanto, come vedremo, questi cambiamenti politici non sono frutto del caso, né la conseguenza della volontà politica di un’opposizione democratica. Essi sono indiscutibilmente delle operazioni geostrategiche pianificate, organizzate dall’esterno dei paesi coinvolti.

Battaglia per l’Eurasia

Il 20° secolo ha visto il rimpiazzo del dominio inglese a causa della dominazione americana. Tale rimpiazzo di una potenza marittima da parte di un’altra non modifica l’approccio di questi stati verso il mondo, né tantomeno verso il continente. La necessità di ogni potenza dominante (Inghilterra del 19° secolo e America del 20°) di affermare la propria presenza nel cuore dell’Eurasia è essenziale e passa obbligatoriamente, lo vedremo, per un reflusso dell’influenza russa in questa zona, che corrisponde pertanto all’area straniera più prossima. Questa teoria dello sfondamento in Eurasia è un elemento essenziale da valutare per chi vuole comprendere la relazione dell’America con la Russia, come era stato durante il secolo precedente quella della Russia con l’Inghilterra, in seno al grande gioco[4] nell’Asia centrale. In effetti queste due potenze obbediscono alle medesime leggi geopolitiche e sottostanno ai medesimi limiti geografici. Il carattere insulare di entrambi gli stati fa che la loro volontà di dominazione mondiale passi per due restrizioni obbligatorie: in primo luogo il predominio dei mercati (da cui la loro potenza marittima) ma anche l’obbligo di non restare isolati, di ingerire nei centri geografici del mondo, là dove si trova concentrato il grosso della popolazione e delle risorse energetiche ma allo stesso tempo là dove si decide la Storia. Questo obiettivo deriva da una dottrina geopolitica anglosassone, che definisce i rapporti tra potenze mondiali come un’opposizione tra le potenze dette marittime (Inghilterra, America), e quelle definite continentali (Germania, Russia, Cina). Tale teoria è in particolare quella presentata da uno dei padri della geopolitica moderna, Halford Mackinder (1861-1947), che ha definito l’esistenza di un “cuore della Terra” (Heartland) situato nel centro dell’Eurasia, in una zona che copre l’attuale Siberia e il Caucaso. Mackinder teme (la sua teoria è precedente alla seconda guerra mondiale) che questa zona del mondo possa organizzarsi e divenire totalmente sovrana, escludendo così l’America (situata in un’isola decentrata) dalla gestione della politica mondiale. Il maggiore pericolo secondo Mackinder sarebbe stato un’alleanza dei due principali imperi continentali che sono la Germania e la Russia. Egli auspica dunque la costituzione di un fronte di stati in grado di impedire a una coalizione siffatta di venire alla luce. Nel 1945, l’URSS è vista per la sua dimensione e influenza come la principale potenza in grado di unificare l’Heartland. Essa è quindi diventata per forza di cose l’avversario principale dell’America.
Una seconda teoria sviluppata da Nicholas Spykman (1893-1943) considera che la zona essenziale non è tanto l’Heartland quanto la regione situata tra quest’ultima e le coste. Questa seconda teoria, che completa la prima, mostra l’importanza di impedire alla principale potenza continentale (l’URSS un tempo e dal 1991 la Russia) di ottenere uno sbocco sul mare. Per questo fine si è dovuto ugualmente formare un fronte di stati, ma questa volta atto alla creazione di un tampone tra l’URSS e i mari adiacenti (mare del Nord, mar Caspio, mar Nero, mar Mediterraneo). Questo contenimento continua ancora oggi secondo la storica Natalia Narochnitskaya e passa per “l’esclusione dal Nord della Russia dall’ellisse energetico[5] mondiale, zona che comprende la penisola araba, l’Iraq, l’Iran, il golfo persico, il Nord del Caucaso (Caucaso Russo) e l’Afghanistan. Concretamente si tratta di tagliare alla Russia l’accesso agli stretti, ai mari, agli oceani così come alle zone cariche di risorse energetiche, e quindi respingerla verso il Nord e verso l’Est, lontano dal Mediterraneo, dal mar Nero, dal mar Caspio. Ci sono quindi una prima linea di penetrazione che va dai Balcani all’Ucraina per il controllo del mar Egeo e del mar Nero, e una seconda linea che dall’Egitto va fino all’Afghanistan per il controllo del mar Rosso, del golfo persico, e del mar Caspio. Non c’è niente di nuovo in questa strategia, se non la corsa al petrolio che l’ha rilanciata”. Si tratta ancora una volta di separare la Russia dall’Europa occidentale, al fine di evitare le alleanze continentali, in particolare tra le due potenze che sono all’alba del 21° secolo la Russia in ascesa e la Germaina, prima potenza europea.

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