Ai primi di luglio, le forze navali russe e cinesi hanno condotto la relativamente grande esercitazione congiunta annuale (“Cooperazione marittima 2013″), nelle acque della baia di Pietro il Grande, Mar del Giappone. Pechino ha inviato quattro cacciatorpediniere, cinque fregate e una nave rifornimento, mentre la Russia ha mobilitato undici navi di superficie e un sottomarino. Sono state le più grande esercitazioni militari navali della Cina nella sua storia, in collaborazione con una potenza straniera.
A giugno, le più grandi esercitazioni militari russe, dal crollo dell’URSS, hanno avuto luogo nell’Oriente russo. Queste manovre, che hanno mobilitato 160.000 uomini, 1.500 carri armati, più di 130 aerei ed elicotteri e 70 navi da guerra e sottomarini della Flotta del Pacifico, simulavano una grande operazione difensiva in Estremo Oriente, con l’invio di forze supplementari dalle regioni centrali e occidentali della Russia.
Attualmente e fino al 15 agosto, la Russia e la Cina conducono negli Urali meridionali, nel duplice contesto della cooperazione bilaterale e della Shanghai Cooperation Organization, esercitazioni antiterrorismo volte a migliorare il coordinamento militare degli eserciti cinese e russo. Queste esercitazioni, denominate “Missione di pace 2013″, sono volte a sviluppare tattiche operative per sradicare una possibile minaccia terroristica. Il terrorismo in tutte le sue forme è oggi la principale preoccupazione dei due giganti dell’Eurasia. Con la partenza dall’Afghanistan delle truppe NATO nel 2014, Mosca teme un possibile peggioramento della stabilità regionale che porterebbe alla rinascita del terrorismo nei Paesi vicini e quindi in alcuni territori russi. Ovviamente, questa preoccupazione si fa sentire anche a Pechino. Ciò spiega in parte il forte desiderio di Mosca di rafforzare la propria presenza in Asia centrale e il sua crescente sostegno ai governi dell’Asia centrale. Vi sono state trattative con il Tagikistan, che ospita una base russa, e per il rafforzamento della base russa in Kirghizistan, insieme all’invio di armi e attrezzature militari nel Paese.
Mosca ha infatti chiaramente definito la regione russofona dell’Asia centrale come una priorità geopolitica, indirettamente incorporata nella costituzione dell’Unione Eurasiatica, prendendo quindi molto seriamente la necessità di mantenere la sicurezza regionale a sud del suo confine più grande. Da parte sua, Pechino si concentra sulla Cina occidentale, che confina con l’Asia centrale, in particolare sulla regione cinese del Xinjiang.
In questa regione, nell’aprile scorso, scontri armati avevano già ucciso 21 persone nella città di Serikubja, vicino a Kashgar. Secondo Pechino, i terroristi hanno ucciso 15 poliziotti e funzionari comunali prima che la polizia contrattaccasse uccidendo sei terroristi, tutti uiguri. L’ultimo mese, episodi di violenze sono esplosi di nuovo nella stessa regione. I rivoltosi hanno attaccato stazioni di polizia ed edifici governativi a Lukqiu, presso l’oasi di Turfan (250 km da Urumqi), massacrando e uccidendo 24 persone, mentre undici assalitori sono stati uccisi dalla polizia. Incidenti intercomunali quindi si moltiplicano nella regione, commemorando l’anniversario della rivolta del 2009 che aveva visto scontri molto violenti tra i separatisti uiguri e i cinesi che vivono nella regione. Ma la Cina e la Russia si ritrovano anche su un altro dossier, forse ancora più importante, la Siria. Non è più un mistero che centinaia (migliaia, secondo alcune fonti) combattenti provenienti dal Caucaso, dall’Asia centrale e anche
dalla Cina combattano oggi in Siria, in seno alla nebulosa della rete terroristica radicale contraria al governo di Bashar al-Assad. Se Mosca è preoccupata per le possibili conseguenze del ritorno di questi terroristi in Eurasia, questa preoccupazione è ovviamente condivisa da Pechino, che vede nel possibile ritorno di questi combattenti in Xinjiang un significativo rischio di destabilizzazione. Le cose accelerano di molto, questa nuova alleanza russo-cinese sembra consolidarsi rapidamente, mentre il reflusso dell’influenza degli Stati Uniti in Asia centrale si conferma altrettanto rapidamente. Se la ritirata statunitense dall’Afghanistan è accompagnata dalla chiusura della base statunitense di Manas in Kirghizistan, la presenza dei taliban resta importante nella regione instabile del Gorno-Badakhshan, al confine con la Cina, ad ovest. Possiamo quindi chiederci se l’assalto salafita alla Cina non debba iniziare nei prossimi mesi come suggerito per esempio da Jurij Tavrovskij, professore presso l’Università dell’Amicizia dei Popoli di Mosca.
Abbastanza sorprendentemente, il primo luglio il “Quotidiano del Popolo” cinese aveva apertamente accusato gli Stati Uniti di sostenere indirettamente il terrorismo in Cina, accusando gli Stati Uniti di avere “un approccio parziale al problema del Xinjiang e della lotta al terrorismo, trovando scuse verso i rivoltosi, al limite dell’istigazione e della complicità”, e soprattutto “i media statunitensi che presentano la situazione solo come un problema etnico o religioso, hanno responsabilità nelle violenze nello Xinjiang“.
Una retorica sorprendentemente simile a quella usata nel caso del Caucaso russo, che i media multimediali principali statunitensi, infine, hanno smesso di usare solo assai di recente, presentando i combattenti islamici nel Caucaso, in gran parte in lotta oggi in Siria, quali combattenti per la libertà.
Il Xinjiang potrebbe diventare domani il Caucaso cinese?