Il XX secolo ha visto la sostituzione dell’egemonia inglese con quella statunitense. Questa sostituzione di una potenza marittima con un’altra non ha cambiato le due necessità ineludibili della talassocrazia anglosassone: in primo luogo il controllo dei mari, ma anche l’obbligo di intervenire nel centro geoeconomico del mondo. Questo secondo obiettivo è inscritto nella dottrina geopolitica anglosassone, che definisce i rapporti tra potenze mondiali come una concorrenza tra le potenze definibili come marittime (Inghilterra, USA) e quelle definibili come continentali (Germania, Russia, Cina). Questa teoria appartiene ad uno dei padri della geopolitica moderna, Halford Mackinder (1861-1947), che ha definito l’esistenza di un “perno del mondo” (Heartland) situato in Eurasia, in una zona che si estende sull’attuale Siberia, sull’Asia centrale e sul Caucaso. Mackinder temeva che questa zona del mondo si organizzasse e diventasse completamente sovrana, escludendo così l’America dalla gestione degli affari del mondo. Secondo Mackinder il più grande pericolo sarebbe stato un’alleanza dei due principali imperi continentali: la Germania e la Russia. Egli fa dunque appello alla costituzione di un fronte di Stati capace d’impedire la nascita di una tale coalizione. Dopo il 1945, l’URSS è stata vista, per le sue dimensioni e la sua influenza, come la principale potenza in grado di unificare questo Heartland. Essa è dunque diventata l’avversario principale dell’America. Una seconda teoria geopolitica, sviluppata da Nicholas Spykman (1893-1943), considera che la zona essenziale non sia tanto lo Heartland, quanto la regione intermedia fra quest’ultimo ed i mari circostanti. Questa seconda teoria, che va a completare la prima, proponeva di impedire alla potenza principale (l’URSS di ieri e la Russia dal 1991) di avere accesso ai mari. Anche per conseguire questo obiettivo bisogna costituire un fronte di Stati, ma al fine di creare e controllare una zona tampone tra l’URSS e i mari vicini (Mare del Nord, Mar Caspio, Mar Nero, Mar Mediterraneo).
Per la storica Natalia Narochnitskaja, questa volontà di arginamento è sempre attuale. Si tratta soprattutto di tener lontana la Russia dal settore nord dell’ellissi energetica mondiale, zona che comprende la penisola araba, l’Iraq, l’Iran, il Golfo persico, il Caucaso settentrionale (Caucaso russo) e l’Afghanistan. In concreto, si tratta di impedire l’accesso agli stretti, ai mari, agli oceani, nonché alle zone delle grandi risorse energetiche, dunque di respingere la Russia verso il nord e verso l’est, lontano dal Mediterraneo, dal Mar Nero e dal Mar Caspio. Questa spinta si esercita dunque su un primo fronte, che va dai Balcani all’Ucraina, per il controllo dell’Egeo, del Mar Nero e del Mar Caspio, e su un secondo fronte, che va dall’Egitto all’Afghanistan, per il controllo del Mar Rosso, del Golfo Persico e del Mar Caspio.
Il controllo statunitense sulla nuova Europa
Alla fine della seconda guerra mondiale, l’America e l’URSS si affrontano: è la “guerra fredda”, in un mondo definibile come “bipolare”. Questa guerra fredda terminerà con l’affondamento dell’URSS nel 1991. Il mondo successivo al 1991 sarà unipolare e americocentrico: il nuovo ordine mondiale del presidente Bush senior prende forma nel 1991, sulle sabbie dell’Iraq. All’epoca, molti pensano che nulla più cambierà, si parla della fine delle ideologie, addirittura della fine della storia, con un’America che regnerà per sempre sul pianeta. Durante la guerra fredda, l’unione europea viene costruita su fondamenta transatlantiche, poiché sono stati gli USA, col Piano Marshall, ad “aiutare” l’Europa in rovina a ricostruirsi, prima di controllare la sua trasformazione in Unione Europea. Ambrose Evans-Pritchard, giornalista britannico del “DailyTelegraph”, dopo lo studio dei documenti resi pubblici dagli Archivi nazionali degli USA (1) spiegherà il ruolo dei servizi segreti statunitensi
nella campagna in favore d’un’Europa unita negli anni Cinquanta e Sessanta. Questi documenti mostrano che lo strumento principale di Washington nell’applicazione di questo piano per il continente fu il Comitato Statunitense per un’Europa Unita (American Commitee for a United Europe – ACUE), creato nel 1948. Donovan, che allora si presentava come un avvocato di diritto privato, ne era il presidente. Il vicepresidente era Allen Dulles, direttore della CIA negli anni Cinquanta. Il consiglio d’amministrazione dell’ACUE comprendeva Walter Bedell Smith, che era stato il primo direttore della CIA, e tutta una serie di personalità dell’OSS e di funzionari che andavano e venivano dalla CIA. I documenti rivelano inoltre che l’ACUE finanziò il Movimento Europeo, la più importante organizzazione federalista europea negli anni del dopoguerra. Anche il Dipartimento di Stato svolse il suo ruolo, poiché una nota della direzione Europa, datata 11 giugno 1965, consiglia al vicepresidente della Comunità Economica Europea, Robert Marjolin, di perseguire la costruzione di un’unione monetaria europea. Essa raccomanda di impedire ogni dibattito finché l’adozione di tali misure non diventi praticamente inevitabile. Infine i documenti confermano che gli USA operavano molto attivamente dietro le quinte per portare la Gran Bretagna ad integrare l’organizzazione europea. Ciò consente di comprendere meglio la guerriglia condotta dagli USA dal 1961 al 1969 contro il generale De Gaulle, quando quest’ultimo impediva l’ingresso dell’Inghilterra nella nascente Unione europea. Questa integrazione transatlantica ed occidentale si traduce in una solidarietà antisovietica durante la guerra fredda. A poco a poco, l’estensione della NATO diventa una sorta di complemento naturale dell’integrazione di nuovi Stati nell’Unione europea. Così la NATO impedisce ogni sovranità militare in Europa, mentre l’organizzazione sovranazionale europea è sprovvista di ogni sovranità politica. Questa estensione della NATO verso est, nel momento in cui il Patto di Varsavia non esiste più, ha un disegno geopolitico ben preciso: usare l’Europa come testa di ponte per aiutare la penetrazione statunitense nel continente eurasiatico e respingere più ad est l’influenza russa.
nella campagna in favore d’un’Europa unita negli anni Cinquanta e Sessanta. Questi documenti mostrano che lo strumento principale di Washington nell’applicazione di questo piano per il continente fu il Comitato Statunitense per un’Europa Unita (American Commitee for a United Europe – ACUE), creato nel 1948. Donovan, che allora si presentava come un avvocato di diritto privato, ne era il presidente. Il vicepresidente era Allen Dulles, direttore della CIA negli anni Cinquanta. Il consiglio d’amministrazione dell’ACUE comprendeva Walter Bedell Smith, che era stato il primo direttore della CIA, e tutta una serie di personalità dell’OSS e di funzionari che andavano e venivano dalla CIA. I documenti rivelano inoltre che l’ACUE finanziò il Movimento Europeo, la più importante organizzazione federalista europea negli anni del dopoguerra. Anche il Dipartimento di Stato svolse il suo ruolo, poiché una nota della direzione Europa, datata 11 giugno 1965, consiglia al vicepresidente della Comunità Economica Europea, Robert Marjolin, di perseguire la costruzione di un’unione monetaria europea. Essa raccomanda di impedire ogni dibattito finché l’adozione di tali misure non diventi praticamente inevitabile. Infine i documenti confermano che gli USA operavano molto attivamente dietro le quinte per portare la Gran Bretagna ad integrare l’organizzazione europea. Ciò consente di comprendere meglio la guerriglia condotta dagli USA dal 1961 al 1969 contro il generale De Gaulle, quando quest’ultimo impediva l’ingresso dell’Inghilterra nella nascente Unione europea. Questa integrazione transatlantica ed occidentale si traduce in una solidarietà antisovietica durante la guerra fredda. A poco a poco, l’estensione della NATO diventa una sorta di complemento naturale dell’integrazione di nuovi Stati nell’Unione europea. Così la NATO impedisce ogni sovranità militare in Europa, mentre l’organizzazione sovranazionale europea è sprovvista di ogni sovranità politica. Questa estensione della NATO verso est, nel momento in cui il Patto di Varsavia non esiste più, ha un disegno geopolitico ben preciso: usare l’Europa come testa di ponte per aiutare la penetrazione statunitense nel continente eurasiatico e respingere più ad est l’influenza russa.
La logica geopolitica è evidente: conservare il controllo del continente ed un’Europa incomp eta, onde evitare che l’Europa unificata diventi un gigantesco polo politico-economico, concorrente degli USA.
Anni duemila: il dato nuovo
L’elezione di Vladimir Putin (che per l’analista Aymeric Chauprade è un grande evento geopolitico) e la rapida rinascita della Rus accompagnato da una pressione mantenuta sull’Est europeo e sul Caucaso. Vari Stati hanno costituito, negli anni 2000, l’obiettivo di eventi politici simili: le “rivoluzioni colorate”. Esse hanno coinvolto soprattutto degli Stati i cui regimi non erano particolarmente ostili a Mosca, né specificamente filoccidentali (2). La grande stampa occidentale ha spesso presentato questi eventi come sollevazioni spontanee e democratiche. Oggi sappiamo che le “rivoluzioni colorate” sono state in realtà colpi di Stato “democratici” (3), sponsorizzati e coorganizzati dall’esterno per il tramite di numerose ONG, la cui lista è consultabile qui (4). Si è parlato di “orangismo” (in relazione con la “rivoluzione arancione” in Ucraina) per qualificare questa corrente geopolitica occidentalista. La “rivoluzione” in Ucraina ha potuto beneficiare anch’essa del sostegno finanziario di donatori inaspettati, come l’oligarca liberale in esilio Boris Berezovskij (5), per il quale la “rivoluzione” era diretta in primo luogo contro la Russia.
Un obiettivo geopolitico: il frazionamento della Russia
Nel settembre 1997 uno dei più influenti politologi statunitensi, Zbigniew Brzezinski, pubblicò un articolo sulla geopolitica dell’Eurasia spiegando che il mantenimento dell’egemonia statunitense passava attraverso una divisione della Russia in tre Stati distinti, che si sarebbero poi raggruppati sotto la denominazione di “Confederazione Russa”; nel libro La grande scacchiera egli affermava che in tal modo la Russia sarebbe meno propensa a nutrire ambizioni imperiali e non sarebbe in grado di impedire il controllo dell’Eurasia da parte degli USA. Questa idea di smembrare la Russia in più Stati è vecchia. All’epoca del “grande gioco” nel XIX secolo, durante la lotta che contrapponeva gl’imperi russo e britannico in Asia centrale e nel Caucaso, l’Inghilterra aveva ben compreso l’importanza – e, per essa, la minaccia – delle recenti conquiste russe, fatte a spese dell’Impero ottomano, che aprivano alla Russia un accesso al Mediterraneo ed al Mar Nero. Dal 1835 l’Inghilterra cercò dunque di destabilizzare la Russia, in particolare inviando armi nel Caucaso e creando comitati ceceni o circassi all’epoca del Congresso di Parigi del 1856, dopo la guerra di Crimea. Questo fronte caucasico resterà, nel corso dei secoli XX e XXI, una sorta di ventre molle, attraverso il quale l’Inghilterra e poi gli USA tenteranno di destabilizzare la Russia. Agl’inizi del XX secolo, infatti, alcuni responsabili delle repubbliche musulmane di Russia, soprattutto nel Caucaso e nell’Asia centrale, cercarono di organizzare la lotta per la loro indipendenza col sostegno dell’Occidente: fu la nascita del Prometeismo (6), un movimento che per tutto il secolo lottò per ridestare le identità e incoraggiare diversi separatismi, al fine di indebolire la Russia. Dopo la disgregazione dell’URSS e la scomparsa del Patto di Varsavia, una parte delle élites russe aveva ingenuamente pensato che la guerra fredda fosse finita e che la NATO non avrebbe più cercato di ingrandirsi. Il sostegno di Vladimir Putin a George Bush nel 2001 avrebbe potuto segnare l’inizio di una collaborazione nell’emisfero settentrionale, nel quadro di un’alleanza estesa da Vancouver a Vladivostok. A tale scopo venne pure creato nel 2002 un consiglio Russia-NATO (7). Ma, contrariamente alle promesse fatte alla parte russa, l’espansione della NATO verso est è continuata, in una logica post guerra fredda; ci sono state le “rivoluzioni colorate” e le intenzioni degli USA nel Caucaso e nell’Asia centrale non sono affatto chiare. Oggi l’accerchiamento della Russia prosegue con l’installazione dello scudo antimissilistico alle frontiere del paese (8). Le idee di Mackinder, di Spykman e di Brzezinski forse non sono morte e la Russia è oggi il bersaglio di una pressione “arancione” che mira allo smembramento del paese.
Una manipolazione “arancione”: il nazionalismo secessionista
I commentatori stranieri spesso fanno fatica ad interpretare e ad ammettere la ricomposizione identitaria e territoriale in corso. La Russia odierna può essere definita uno Stato eurasiatico, multietnico e confessionale. La Russia non è una nazione; secondo Nikolaj Starikov (9) essa è “un composto unico di centinaia di popoli, esteso su quasi tutto il continente eurasiatico”. Non c’è una Russia, ma ci sono le Russie, tenute insieme grazie ad un potere politico centrale, che compensa gli effetti d’inerzia determinati dalle dimensioni del territorio, dalla varietà dei popoli che vi abitano e dalle grandi differenze dei modi di vita di questi popoli. Come è stato perfettamente sintetizzato da Natalia Narochnitskaja: “La Russia vive contemporaneamente nel XIX, nel XX e nel XXI secolo. Essa combina l’opulenza e la miseria; la tecnologia d’avanguardia coesiste con le condizioni di vita più arretrate; sul suo territorio si trovano tutti i climi possibili; vi convivono numerose religioni e civiltà. La coabitazione relativamente armoniosa di tutta questa diversità fa della Russia un caso unico. Comunque sia, qui non abbiamo mai avuto guerre di religione simili a quelle che hanno infuriato in Europa”.
Vi sono tuttavia dei fatti che rivelano il progetto di un’agitazione “arancione” in Russia. Nel 2010 l’incidente della miniera di Rapadskaja fu seguito da una manifestazione violenta, che risultò essere stata organizzata soprattutto col sostegno di siti informatici inglesi (10) ed ucraini (11) che incitavano alla violenza contro lo Stato russo. In seguito a questi avvenimenti, apparve in rete una misteriosa “Unione dei residenti del Kuzbas”, la quale invocava nientemeno che la secessione della Siberia occidentale (12). Per il deputato locale, la pista straniera “arancione” era la più probabile in relazione allo scoppio dei disordini (13). In maniera sorprendente, questi appelli furono ripresi da siti indipendentisti caucasici (14) e difesi dal maggiore Dimovskij, un poliziotto reso celebre dalla grande stampa occidentale per aver denunciato in un video la corruzione in Russia. L’inchiesta aveva permesso di identificare uno dei possibili sostegni (15) di quest’ultimo: il Comitato dei diritti dell’uomo di Novorossisk, una sottofiliale dell’USAID, che è una delle principali ONG attive nel fornire appoggio alle “rivoluzioni colorate”. Dimovskij affermò semplicemente che era pronto a lavorare con “l’Unione dei residenti del Kuzbas”. Ora, siccome questa organizzazione è totalmente virtuale, come si
sono stabiliti i legami tra loro? E perché la stampa liberale ha dato ampio spazio a questi due casi (16)? Ma gli appelli alla “rivoluzione” ed al separatismo non riguardano soltanto comparse virtuali. Nell’estate 2010 un gruppo chiamato “Fratelli della foresta” si diede alla macchia nell’estremo oriente russo, dopo aver preso parte a numerose aggressioni, a devastazioni di commissariati ed anche all’omicidio di un poliziotto. Il gruppo era costituito di nazbol, i militanti anarchici che predicano la “rivoluzione” permanente e si richiamano al capo politico Eduard Limonov, un personaggio controverso della scena intellettuale e politica russa in possesso della doppia cittadinanza francese e russa, il quale fin dall’inizio degli anni 2000 si è schierato con gli oppositori del Cremlino, sostenendo la fazione più liberale e più filoccidentale. Il gruppo (17) denunciava la corruzione del sistema di polizia, ma anche la degenerazione della società. Così questi “rivoluzionari” d’estrema destra ed
anarchici esprimevano a fior di labbra il loro sostegno ai ribelli salafiti e wahhabiti contro l’armata federale russa.
sono stabiliti i legami tra loro? E perché la stampa liberale ha dato ampio spazio a questi due casi (16)? Ma gli appelli alla “rivoluzione” ed al separatismo non riguardano soltanto comparse virtuali. Nell’estate 2010 un gruppo chiamato “Fratelli della foresta” si diede alla macchia nell’estremo oriente russo, dopo aver preso parte a numerose aggressioni, a devastazioni di commissariati ed anche all’omicidio di un poliziotto. Il gruppo era costituito di nazbol, i militanti anarchici che predicano la “rivoluzione” permanente e si richiamano al capo politico Eduard Limonov, un personaggio controverso della scena intellettuale e politica russa in possesso della doppia cittadinanza francese e russa, il quale fin dall’inizio degli anni 2000 si è schierato con gli oppositori del Cremlino, sostenendo la fazione più liberale e più filoccidentale. Il gruppo (17) denunciava la corruzione del sistema di polizia, ma anche la degenerazione della società. Così questi “rivoluzionari” d’estrema destra ed
anarchici esprimevano a fior di labbra il loro sostegno ai ribelli salafiti e wahhabiti contro l’armata federale russa.
Ancora una volta, ritroviamo la retorica secessionista e antifederale al centro delle rivendicazioni. Curiosamente, certe associazioni per i diritti umani hanno denunciato la brutalità poliziesca in occasione dell’intervento contro questi giovani terroristi. È il caso dell’associazione Agora (18), che d’altronde è accusata di finanziare il terrorismo (19) sul territorio della Federazione Russa, nella repubblica musulmana del Tatarstan. Non c’è da stupirsi dunque se questa associazione si trova nell’elenco di quelle che hanno beneficiato delle sovvenzioni (20) del National Endowment for Democracy (21), un organismo finanziato dal Dipartimento di Stato USA che controlla e finanzia a sua volta centinaia di ONG nel mondo.
L’oppositore Navalny: un progetto statunitense?
Nel 2010 ha fatto la sua apparizione un Dimovskij bis, col sostegno mediatico occidentale. Si tratta del blogger Aleksej Navalny, che si propone come paradigma di virtù denunciando i casi di corruzione politica e di malversazione finanziaria, cause del resto alquanto seducenti. Nel novembre 2010 ha pubblicato delle informazioni su un furto di quattro miliardi di dollari commesso da alcuni funzionari durante la costruzione di un oleodotto nella Siberia orientale, un furto che sarebbe stato concordato ai più alti vertici dello Stato. È stato lui, nel febbraio 2011, a lanciare la parola d’ordine che qualifica Russia Unita come un partito composto di “truffatori e ladri”; ha anche creato una sorta di Wikileaks russo (Rospil.info). Relativamente popolare in Occidente, Navalny è poco noto in Russia e in fin dei conti poco apprezzato, poiché solo il 6% dei Russi lo conosceva e solo l’1% dei Russi avrebbe fiducia in lui (22). Perché? Innanzitutto perché molti altri blogger hanno, e da tempo, denunciato la corruzione in Russia, come per esempio Ivan Begtin, che ha creato il sito Rosspending. Per molti, l’emergenza mediatica di Navalny, il diretto sostegno che egli ha ottenuto dai media liberali russi (“Vedomosti” o “L’eco di Mosca”) e soprattutto stranieri, i suoi legami con l’ambasciata statunitense o il suo invito negli Stati Uniti – dove ha tenuto una conferenza sulla corruzione (23) davanti a responsabili di ONG “arancioni” (24) – sarebbero segni del fatto che costui è solo una marionetta incaricata di destabilizzare la Russia, una sorta di reincarnazione di Eltsin (25). Recentemente sono state svelate al gran pubblico alcune coversazioni private di Navalny avvenute per via informatica. Ne risulta che dal 2007 costui collabora attivamente con il NED (26), l’ONG “arancione” che finanzia diverse associazioni sovversive (27) per conto del Dipartimento di Stato. Navalny è anche attivamente collegato con Robert Bond, un diplomatico statunitense ben conosciuto in Russia. Fra i donatori e informatori di Navalny figuravano il politologo Stanislav Belkovskij, vicino, in un certo periodo, a Boris Berezovskij ed agli indipendentisti ceceni (28). Come per caso, Navalny si sarebbe recato discretamente (29) a Londra, dove avrebbe incontrato Boris Berezovskij e il suo luogotenente Andrej Sidelnikov, cofondatore del movimento Pora (30), copiato dal Pora che ha organizzato la “rivoluzione arancione” in Ucraina (31). Sidelnikov ha anche organizzato a Londra le manifestazioni “Strategie31” (32), che riuniscono sia liberali sia nazbol come… Eduard Limonov (33). Ex militante di Jabloko (partito dell’opposizione liberale), Navalny è anche un nazionalista secessionista: ha partecipato alla marcia russa (34) in mezzo a migliaia di radicali d’estrema destra (35) che hanno ripreso le accuse contro Putin e Russia Unita ed hanno invocato la Russia senza Caucaso auspicata da Navalny (36).
“Smettiamola di sfamare il Caucaso”
La conseguenza di questa pressione secessionista è stata la comparsa di nuovi movimenti politici. È il caso, ad esempio, di un nuovo movimento giovanile che si definisce movimento dei “nazional-democratici”, i naz-dem, denominazione che fa stranamente pensare ai naz-bol, implicati nelle diverse azioni citate più sopra; ma bisogna ricordare che Aleksej Navalny (37) si definisce egli stesso come “nazional-democratico”, poiché, in quanto membro liberale e filoccidentale di Jabloko, aveva redatto un manifesto nazionalista (38) e si era definito “nazionalista democratico” (39). Egli aveva d’altronde predetto che il cambiamento di potere in Russia non sarebbe passato attraverso le elezioni, ma, né più né meno, attraverso uno scenario di tipo tunisino (40). Questo movimento ha svolto un ruolo importante nelle manifestazioni del dicembre 2011. All’epoca, furono utilizzate delle bandierine con parole d’ordine e messaggi in lingua inglese (41), cosa che fino ad allora era una specialità esclusiva dell’opposizione liberale. Questa tendenza non è rappresentata soltanto da appelli all’indipendenza del Caucaso. Il movimento preconizza anche (42) un più stretto avvicinamento con l’Unione Europea e con la NATO, nonché “l’abbandono di ogni velleità imperialista postsovietica nell’Europa centrale” e, ancora, una revisione dei recenti trattati firmati con la Cina (!) Infine, il movimento è attestato su posizioni ostili al mondo arabo e molto filoisraeliane.
“Smettiamola di sfamare Mosca”
Il Caucaso non è il solo bersaglio dei “secessionisti” finanziati dall’Occidente. Anche in altre parti della Russia hanno avuto luogo manifestazioni secessioniste che esortavano a smetterla di “sfamare Mosca”. In particolare in Siberia, a Novosibirsk, recentemente si sono svolte manifestazioni con parole d’ordine quali: “La Siberia ai Siberiani” (43) o, appunto, “Smettiamola di sfamare Mosca” (44). Le azioni sono state guidate dagli stessi gruppiradicali di destra in collaborazione con una frangia liberale sostenitrice dei diritti umani (45 . Non è stata soltanto la Siberia ad essere interessata, poiché azioni simili hanno avuto luogo nel sud, a Samara sul Volga, o anche a Belgorod. Neanche Mosca è stata risparmiata, perché il 25 ottobre scorso (46) vi si è svolta una manifestazione che ha riunito gli oppositori liberali sotto le parole d’ordine “Smettiamola di sfamare il Caucaso” e “Non paghiamo il tributo a Mosca”. A questa manifestazione si è potuta notare la partecipazione di Vladimir Milov (47), un ex dirigente di Solidarnost che oggi è alla testa del movimento d’opposizione Scelta Democratica (48). Tuttavia, stando ai dati ufficiali, il Caucaso non è affatto la regione più sovvenzionata dalle autorità federali, come è perfettamente dimostrato qui (49). Tutte queste adunate non mobilitano folle numerose; tuttavia sulla rete c’è una grande agitazione, in vista di future manifestazioni contro la politica di Russia Unita (50). Gli appelli provengono da misteriose organizzazioni, una delle quali ha ripreso il nome di un’organizzazione, dissolta dopo il colpo di Stato del 1991, che coalizzava “socialisti e nazionalisti” contro il Cremlino (51). Un’altra arriva dall’Ucraina (52).
Verso una rivoluzione delle nevi in Russia?
Ricordiamo i fatti: in seguito alle elezioni del 4 dicembre 2011, che hanno comportato un calo di Russia Unita e un forte guadagno dei partiti nazionalisti o di sinistra, sono state denunciate delle frodi elettorali. Queste frodi avrebbero permesso al partito di governo, che disponde delle risorse amministrative, di falsificare i risultati gonfiando i propri suffragi. Chiunque conosca la Russia contemporanea, questa giovane democrazia sovrana e guidata, sa che le elezioni sono bene o male rappresentative delle tendenze e delle opinioni popolari, nonostante le numerose irregolarità che accompagnano ogni appuntamento elettorale. In Occidente, pochi si sono lamentati del fatto che il candidato del partito comunista, Gennadij Zjuganov, si sia lasciato rubare la vittoria alle elezioni presidenziali del 1996, a causa di un furto organizzato dai falchi del giro di Eltsin, vale a dire il clan Berezovskij. Esistono studi approfonditi che rivelano irregolarità a vari livell . Tuttavia la corrispondenza delle esplorazioni preelettorali e dei sondaggi d’opinione con gli exit-poll e i risultati finali sembra dimostrare che queste elezioni sono state di gran lunga le più corrette della giovane storia russa (53). Dopo la crisi finanziaria, la situazione è stata relativamente modificata; ma se nessuno in Russia aveva potuto pronosticare una sconfitta di Russia Unita in queste elezioni, molti avevano previsto il forte calo di questo partito e la relativa perdita di voti dei partiti di sinistra come il partito comunista o Russia Giusta.
Al di là dell’Atlantico sono stati messi a punto piani di disordini per colpire la Russia. Molto prima delle elezioni e del loro prevedibile risultato, è stata inventata un’organizzazione chiamata Belaja Lenta; il nome del dominio del relativo sito informatico è stato depositato negli Stati Uniti nel novembre 2011 (54). Questa notizia è molto importante, perché consente di capire la manovra. Non appena sono stati resi noti i risultati delle elezioni e la vittoria di Russia Unita, le proteste sono dilagate sulla rete. Le scene di frodi elettorali diffuse da parecchi blog e reti sociali ricordano l’agitazione informatica delle “rivoluzioni” di Facebook, che nel 2009 hanno colpito la Moldavia e l’Iran e recentemente il mondo arabo. La popolazione che ha manifestato – per lo più giovanile, istruita e di sesso maschile – era convinta che qualcosa le fosse sfuggito.
Incredibilmente significativo: i sondaggi e le inchieste sui manifestanti (55) hanno rivelato che il 40% di loro aveva votato per il partito liberale Jabloko, la cui percentuale finale è stata del 7% a Mosca e del 15% a San Pietroburgo, ma solo del 3% a livello nazionale! La conclusione è semplice: il ceto medio superiore delle grandi città oggi manifesta contro colui grazie al quale si è arricchita in questi ultimi anni. Mentre gli elettori e il popolo chiedono più Stato e più ordine (avanzata dei partiti statalisti di sinistra e dei partiti nazionalisti), le manifestazioni sono fatte da una iperclasse media urbana che invece reclama meno Stato e più libertà individuale. In aggiunta a questi contestatori liberali, un fronte di ultrasinistra e anarchico (rappresentato da Sergej Udaltsov) e un fronte d’estrema destra (rappresentato dal carismatico Aleksej Navalny) sono riusciti a stipulare una provvisoria pax anti-Putin, delimitando i contorni politici di questa opposizione piuttosto eclettica. Un fronte anti-Putin che opera sotto il benevolo ombrello finanziario delle ONG statunitensi attive in Eurasia, alle quali Hillary Clinton ha assicurato che il Congresso aumenterà le sovvenzioni per il 2012, anno delle elezioni presidenziali in Russia.
Sicuramente la grande maggioranza di questi manifestanti non è consapevole di contribuire ad un movimento molto più ampio, destinato a creare disordini ed a far scendere nelle strade quanta più gente possibile, per paralizzare il paese, indebolirlo e quindi accentuare la pressione internazionale. È il modus operandi delle “rivoluzioni colorate”. Una minoranza di attivisti manipola una maggioranza ingenua.
Come diceva il giornalista Maksim Shevcenko (56): “Io non posso accettare le parole d’ordine politiche utilizzate in queste manifestazioni. Esse sono state escogitate da individui moralmente screditati. Aleksej Navalny, per esempio, ha fatto appello alla separazione del Caucaso, usando una parola d’ordine (“Ne ho abbastanza di sfamare il Caucaso!”) la quale mette nello stesso sacco diverse regioni (Daghestan, Cecenia, Ossezia) che non hanno avuto la stessa storia e hanno rapporti diversi col Centro. L’appello alla separazione del Caucaso è una manipolazione della realtà, una provocazione spregevole. Tutti i casi di falsificazione devono essere denunciati alla giustizia o divulgati tramite la rete. Si vorrebbe procedere alla confutazione, ma non si ha voglia di farlo; un giorno, poi, si pensa che le chiacchiere messe in circolazione siano veridiche.
Invece, la realtà è molto più seria. Sulla rete ci sono molte scene di frodi elettorali. Forse è vero, ma forse si tratta di falsificazioni. La veridicità di queste prove potrebbe essere stabilita solo da una perizia indipendente, per esempio una commissione parlamentare con la partecipazione di ambedue le parti. Sarebbe l’unico modo. Ci invitano a fidarci dell’isteria dei troll della rete! Ci crediamo, ma virtualmente, come è virtuale la rete. Detto ciò, credo che per il paese i risultati delle elezioni siano piuttosto positivi. Al livello federale il quadro costituzionale del paese è stato conservato, i voti dei partiti d’opposizione sono aumentati in misura significativa. Ciò significa che in cinque anni, a livello locale, i rapporti di forza saranno seriamente riconsiderati. Vedremo gli altri partiti affrontare Russia Unita. La gente delle manifestazioni vorrebbe creare imbarazzi allo sviluppo del sistema parlamentare e giuridico, solo perché il loro partito – per esempio Jabloko – non è potuto entrare nella Duma e non è riuscito a far annullare le elezioni. Io non credo a questa musica, non più che a queste manifestazioni. Il paese ha bisogno di unità, bisogna preservarne l’integrità e gl’interessi. Bisogna anche ripulire il paese da tutto il marciume oligarco-liberal-criminal-occidentale, dappertutto, fino all’ultimo villaggio. Il potere deve appartenere al nostro popolo polietnico e policulturale, e non al lumpen delle città, che campa di denaro e di speculazione”.
Mentre si avvicinano le elezioni del marzo 2012, la battaglia per Mosca è forse già cominciata.
[1]0. http://www.nytimes.com/2010/05/19/world/europe/19russiamine.html?_r=1&scp=1&sq=Raspadskaya&st=nyt